venerdì 3 luglio 2020

IMMIGRAZIONE, IL REATO CHE COMMETTEREMMO TUTT*

IMMIGRAZIONE: IL “REATO” CHE TUTTI COMMETTEREMMO.







La questione dell’immigrazione è un argomento che mi sta molto a cuore, perché sono consapevole che, se non avessi avuto l’immensa fortuna di essere adottato da una meravigliosa famiglia italiana, su quei barconi avrei potuto esserci io.

Questo tema è molto ampio e racchiude in sé molteplici considerazioni, ma soprattutto diventa, purtroppo, terreno particolarmente fertile per il diffondersi dei nazionalismi e del razzismo, in particolare modo nei confronti di persone provenienti dall’Africa. 



 
Innanzitutto è bene fare alcune precisazioni su basi legali di questo fenomeno, anche per chiarire alcuni concetti, che vengono eccessivamente semplificati da  slogan di coloro i quali sembrano aver fatto della lotta all’immigrazione la loro vocazione di vita.
Spesso sento dire “chi scappa dalla guerra è il benvenuto, gli altri no”.
A dire il vero la realtà è un po’ diversa e più complicata.
Non è sufficiente fare riferimento alla presenza di un conflitto per stabilire chi abbia diritto di essere accolto o meno, in quanto la risposta potrà essere solo il risultato di un’attenta analisi effettuata  dalle Commissioni territoriali sulla base di parametri oggettivi e soggettivi, che tenga in considerazione la storia individuale di ciascun richiedente, le ragioni delle richieste e il paese di provenienza.


 
Come prima cosa è necessario distinguere diverse categorie di soggetti.
Primo fra tutti il rifugiato, figura giuridica entrata nell’ordinamento italiano con l'adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (ratificata con la legge 722/1954) e regolata essenzialmente da fonti di rango UE. 
Il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Può trattarsi anche di un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per le stesse ragioni non può o non vuole farvi ritorno.


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Il diritto dell’Ue considera i richiedenti d’asilo come i richiedenti “la protezione internazionale“, (istituto introdotto con la direttiva 2004/83/CE) la quale comprende due distinte categorie giuridiche: i rifugiati, disciplinati dalla Convenzione di Ginevra, e le persone ammissibili alla protezione sussidiaria, cioè quei cittadini stranieri privi dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma che tuttavia, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non possono o non vogliono, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione del Paese di origine. Per danno grave si intendono condanna a morte, torture o minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza causata da un conflitto armato (quindi solo qui rientrano i soggetti che scappano dalla guerra).
In Italia poi, prima dell’intervento dei famigerati decreti sicurezza (o meglio insicurezza), era prevista anche la protezione umanitaria. Questa veniva concessa a coloro che non avevano diritto al riconoscimento dello status di rifugiato né della protezione sussidiaria, ma non potevano essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi situazioni personali quali: motivi di salute o di età, carestie e disastri ambientali o naturali, l’assenza di legami familiari nel Paese d’origine, l’essere vittima di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza o di insufficiente rispetto dei diritti umani.
Tale istituto della protezione umanitaria era stato introdotto per dare piena attuazione all’articolo 10 della nostra Costituzione, che parla di cittadini stranieri ai quali «sia impedito» nel loro paese «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».




Fatte queste precisazioni terminologiche, non condivido come viene a volte trattato il tema dell’immigrazione. 
Spesso si tendono a riportare sulle pagine social o nei notiziari, con estrema puntualità e frequenza (a volte anche tramite fake news), i reati commessi da persone africane, o straniere, sottolineandone il paese di provenienza, quasi a voler costruire, nell’immaginario comune, l’idea di una naturale propensione di questi soggetti a voler violare la legge. 
Anche l’utilizzo della parola “invasione” per riferirsi al fenomeno dell’immigrazione ha delle conseguenze non indifferenti. Tale termine (non usato a caso) evoca, a pensarci bene, un pericolo, una minaccia alla vita, alla cultura e alle tradizioni della madre patria e la necessità a tutti i costi di doversi difendere dallo straniero per vincere la battaglia e riprendersi in mano la nazione. 
Agendo in questo modo, si alimentano i pregiudizi e la diffidenza dei cittadini nei confronti di soggetti di diversa provenienza o nei confronti di quei connazionali, che come unica colpa hanno quella di non rispettare i tipici tratti etnici, perché magari troppo scuri. 
Ritengo, in generale, che al di là della regolamentazione, si debba comunque mantenere un atteggiamento più umano di fronte alla questione dell’immigrazione. Stiamo parlando pur sempre di persone, non semplici numeri. Uomini, donne, bambini che hanno affrontato viaggi disperati, consapevoli di poter andare incontro a morte, violenza e ai trattamenti più disumani. Persone, la cui unica colpa è stata quella di nascere nel posto sbagliato. 
In Italia si è addirittura introdotto il reato di clandestinità (con l’aggiunta dell’art.10 bis al T.U. sull’immigrazione), che alimenta e fornisce un fondamento alla percezione di insicurezza instillata negli italiani.
Non è forse un reato che tutti potremmo essere portati a commettere per cercare di sopravvivere, trovare la pace e un futuro migliore per noi e i nostri cari? Anzi, non tutti avremmo il coraggio di spingerci ad affrontare un tale viaggio.



L’Europa, che ha la possibilità di cambiare le cose, potrebbe affrontare il tema dell’immigrazione con una visione più ampia, con uno sguardo rivolto non solo al presente, ma anche al passato interrogandosi sulle cause dei flussi migratori.
È fondamentale cioè che essa impari a confrontarsi e a fare i conti con la sua storia, con sincerità e assumendosi le sue responsabilità. Una storia che non può ignorare o minimizzare i secoli di schiavitù, colonialismo (oggi nella forma di neocolonialismo) e conflitti, soprattutto a danno dell’Africa.
Non si può negare che eventi del genere abbiano avuto un ruolo chiave e continuino ad essere uno dei motivi principali di questi movimenti migratori attraverso la rotta del Mediterraneo.
Allora sarà chiaro che attuare vere iniziative di aiuto e sostegno ai Paesi da cui provengono i migranti, in particolare all’Africa sarà più efficace che provare a bloccare le partenze o respingere i migranti (verso luoghi che sono tutt’altro che sicuri).
Una più solidale e diffusa politica di accoglienza e integrazione, ma soprattutto iniziative concrete a supporto di questo continente , che è stato e continua a essere oggetto di sfruttamento, credo siano un atto dovuto di cui alla fine beneficeremo tutti. 


Nicola Mengistu Perini.

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