sabato 17 ottobre 2020

DECRETI SICUREZZA

 Il nuovo decreto in materia di immigrazione

Arriva l’ennesima modifica delle norme in materia di immigrazione.

Il Consiglio dei Ministri il 5 ottobre ha approvato il decreto legge di modifica dei c.d. “decreti Salvini”, intervenuti fra il 2018 e il 2019. Un intervento atteso da mesi che neutralizza alcune delle disposizioni più aberranti dei precedenti decreti senza però modificarne l’impostazione di base.

Innanzitutto è stata reintrodotta una forma di protezione della durata di due anni concessa a favore delle persone straniere per seri motivi di carattere umanitario “risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”, che rientrerà fra le ipotesi di permesso per c.d. “protezione speciale”. È di fatto una forma molto simile alla vecchia protezione umanitaria prevista dal Testo Unico sull’immigrazione del 1998, abolita dai decreti Salvini poiché riconosciuta, a detti di alcuni, con eccessiva facilità. In realtà però, come era prevedibile, invece che diminuire gli sbarchi, l’abolizione aveva solamente aumentato il numero degli stranieri irregolari.

Disposizioni di maggior favore sono state inserite anche relativamente alle ipotesi di divieto di espulsione e respingimento, previsto non solo nel caso in cui la persona straniera rischi di essere sottoposta tortura o a trattamenti inumani e degradanti nel proprio Paese di provenienza ma anche qualora ciò possa comportare una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, come prevede anche l’art. 8 CEDU. Inoltre altro aspetto degno di nota e di rilevante ricaduta sociale è la possibilità di convertire in permesso di soggiorno per motivi di lavoro numerose categorie di permessi quali, ad esempio, per protezione speciale, per calamità, per acquisto della cittadinanza o stato di apolidia, per assistenza minore. I titolari di tali permessi avranno così finalmente la possibilità di stabilizzare la propria presenza sul territorio italiano, anche se non sussistono più le condizioni che inizialmente l’hanno legittimata.

Risulta inoltre eliminato il divieto di registrazione alle anagrafi comunali dei richiedenti asilo, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Consulta a luglio di quest’anno, dopo numerose pronunce dei giudici di merito in tutta Italia. Tale divieto comportava infatti l’impossibilità di ottenere una carta di identità e dunque l’effettivo accesso a servizi pubblici e privati.

Per quanto riguarda più in generale il sistema dell’accoglienza, questo cambia ancora nome e diventa Sistema di accoglienza e integrazione, tornando al modello diffuso gestito dai comuni come sistema prioritario a cui accedono anche i richiedenti asilo e non solamente le persone più vulnerabili, minori e titolari di protezione internazionale.  Si articolerà in due livelli: il primo, gestito dai prefetti, sarà volto alla prima assistenza, il secondo invece a favorire l’inclusione attraverso percorsi di orientamento al lavoro e alla formazione professionale.

Al di là di questi e altri apprezzabili interventi, permangono però delle zone di ombra che il decreto avrebbe dovuto finalmente illuminare. In particolare il sistema dei CPR che, nonostante le numerose denunce circa le violazioni di diritti umani commesse al loro interno e i dubbi profili di legittimità riguardo ad una simile forma di privazione di libertà, non è stato minimamente ripensato. Il decreto si limita semplicemente a ridurre il termine massimo di permanenza da 180 a 90 giorni, oltretutto con una possibile proroga di ulteriori trenta giorni per coloro che provengono da paesi con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio.

Così come sono ridotti i tempi di attesa massima per la richiesta di cittadinanza presentati da una persona straniera naturalizzata da 4 (decreto Salvini) a 3 anni. Peccato che, prima del decreto Salvini, gli anni erano due e quindi, anche in questo caso, non siamo di fronte ad una grande conquista.

Rispetto al soccorso in mare, se operato in violazione del divieto o delle procedure di comunicazione previste, è prevista la reclusione fino a due anni e una multa fino a 50.000. Sono quindi state eliminate le sanzioni amministrative previste dal decreto Salvini che arrivano fino all’importo massimo di un milione di euro, ma per il resto rimane di fatto l’impostazione punitiva nei confronti delle navi umanitarie, solo meno spigolosa rispetto alla precedente.

Leggendo il decreto si ha dunque l’impressione che sia stato modificato lo stretto indispensabile, recependo le osservazioni del Presidente della Repubblica e tenendo conto delle pronunce della Corte costituzionale e della giurisprudenza di merito, ma non molto di più. La speranza era di una svolta radicale, ma l’immigrazione rimane un tema fortemente divisivo sul piano politico, e quindi, ancora una volta, viene affrontata come se ci trovassimo di fronte ad una situazione emergenziale, destinata ad esaurirsi, che ha ricadute unicamente sul piano della sicurezza nazionale. Si tratta invece, come ormai dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti, di un fenomeno strutturale che necessita di una diversa narrazione e di un nuovo approccio legislativo, in grado di fornire risposte a lungo termine.

Spetta ora al Parlamento convertire in legge il decreto, con la possibilità di apportare ulteriori modifiche.


Avv. Silvia Mordenti





martedì 1 settembre 2020

AGOSTO NERO.

 

Agosto Nero


 

Nell’agosto più nero che io ricordi, quando l’eco del rantolo di George Floyd era ancora un macigno sul cuore ed un’ossessione per l’udito, Stati Uniti, Olanda ed Italia confermano la deriva razzista, violenta e disumana del “primo” mondo, quello bianco, poliziesco e perennemente coloniale! Quello fatto di fogli, timbri e code interminabili che hanno lo scopo di mettere in fila i poveri, censirli e stoccarli nei depositi della merce umana da usare, all’occorrenza, come pezzi di ricambio. Quello condotto dagli oppressori e dai loro eredi. Quello in cui il livore e la rabbia dei persecutori, che sembra inestinguibile, ha ancora bisogno di nutrirsi del sangue e della carne degli oppressi.

 

Senza alcun dubbio, quest’ultimo concetto lascia la logica ed il buon senso privi di una ragione. Benché non sia auspicabile, è certamente comprensibile che gli oppressi possano in qualche modo esprimere il loro rancore nei confronti degli oppressori, ma il contrario, per essere compreso, merita obbligatoriamente il più nobile dei simposi psicoanalitici!

 

Qual è la colpa degli oppressi, dei perseguitati e degli abusati?

 

Nel giro di tre settimane, in questo agosto nero, la burocrazia olandese ha assassinato il quattordicenne Alì Ghezawi, la polizia Vicentina ha afferrato per il collo il ventunenne Denis Romero, quella statunitense ha sparato 7 colpi nella schiena di Jacob Blake, il Governatore della Sicilia ha decretato con un’ordinanza lo svuotamento e la chiusura immediata dei centri di accoglienza per migranti dell’intera Isola e Fatu Fall, commessa a Pistoia, si è sentita dire: “Non voglio essere servita da una nera”…

 

Le ipotesi sono almeno due; il Covid fa più danni al sistema nervoso che a quello respiratorio oppure, molto più probabilmente, la politica del terrore è un’agente lievitante dei rigurgiti nazionali, xenofobi e colonialisti.

                                                                                                                                

In ogni caso, mi pare sempre più evidente che vi sia un’estrema ed urgente necessità di rivisitare la sanguinosa e centenaria storia del colonialismo. Di cui la scuola di ogni ordine e grado, ormai prossima alla riapertura, deve assolutamente iniziare ad occuparsi in maniera seria e strutturata. Non solo con l’ausilio dei testi storici, ma anche con  una tranquilla e comoda esplorazione di alcune opere letterarie, cinematografiche e teatrali relativamente recenti. Potrebbe essere sufficiente trascorrere una mezza giornata a contatto con queste storie per capire le ferite, i crimini, le devastazioni e la profonda ingiustizia perpetrata nei secoli dalla storia coloniale.

 

Umberto Galeano, in «Le vene aperte dell’America latina», riferendosi allo sterminio di Maya, Inca ed Aztechi, ci parla di «un’opera» dei conquistatori capace di sterminare circa 90.000.000 di persone. Ai tanti che potrebbero, crudelmente, obiettare sostenendo che questa è «roba vecchia», potrei suggerire di guardarsi Blood Diamond, un film che ci presenta il volto sfigurato di quell'Africa ricca di materie prime sfruttate da potenze economiche straniere, per il tramite delle modernissime multinazionali. Parla di diamanti che grondano del sangue di centinaia di migliaia di vittime e delle vite devastate dei bambini-soldato. Parla della relazione tra il commercio dei diamanti e quello delle armi, utili per istigare guerre e favorire le industrie belliche che, a loro volta, concorrono nella sottomissione di nazioni allo scopo di sfruttarne le materie prime. Una storia maledettamente contemporanea, come lo sono quelle di Iraq e Afghanistan, che conferma quanto quell’attuale sia la più florida forma di neocolonialismo vivente.

 Kadir Nelson, "Flight of the Clotilda"

Tutto questo ci rende, in qualità di eredi attivi e promoter attuali dello sfruttamento della povertà, colpevoli di reato contro quell’umanità di cui pretendiamo di limitare il movimento, il diritto nella ricerca della felicità, la liceità di inseguire uno straccio di vita dignitosa. La «moderna» legislatura quando definisce un uomo colpevole del reato di clandestinità si macchia essa stessa del medesimo crimine giacché lo alimenta, inducendo una fetta di umanità a vivere nascondendosi. Se poi volessimo sostenere che oltre alla clandestinità, questi «delinquenti» si macchiano anche del reato di contraffazione, ancora una volta a scagionare i presunti predatori (che si confermano nelle vesti di predati) ci pensa Roberto Saviano con il suo “Gomorra”, nel qual è resa esplicita la connivenza tra le grandi griffe, i loro manager e le mafie locali, che a loro volta assoldano i soliti disperati che dovranno servire poi da bersagli mobili.

 

È noto a tutti che l’Italia storicamente, con modalità dirette ed in dirette, in epoche remote e recenti, si è macchiata del crimine coloniale. Le alleanze dello stivale col resto del mondo, in ogni epoca, rendono il nostro paese un corpo intriso del sangue e del dolore altrui. La povertà altrui ha concorso nell’edificazione del nostro impero economico.

 

È questo che rende sostanzialmente ciascuno di noi reo, inconsapevole nella migliore delle ipotesi e non confesso nella peggiore. Del resto, molte delle realtà che siamo ancora disposti a considerare espressione di democrazia, libertà, innovazione tecnologica ed emancipazione sociale, devono la loro «fortuna» alla deportazione, allo schiavismo, all’occupazione del suolo altrui, allo sfruttamento minerario e petrolifero, all’invasione, al saccheggio ed alla sopraffazione sistematica di intere popolazioni.




Federico Clapis, "Welcome (?)"

In queste situazioni purtroppo la “legge” giunge a suggello del maltolto, come strumento per preservare i predatori ed il loro bottino da un possibile riscatto dei predati, di generazione in generazione. Si parte, come ben rappresentato nel film Amistad di Spielberg, dalle reti dei mercanti di schiavi che inseguono lungo le coste africane uomini e donne da sottomettere, sino a giungere ai giorni nostri in cui, sulle spiagge italiane, le “forze dell’ordine” inseguono i venditori ambulanti per impedirgli di raccogliere le briciole che sfuggono alle nostre fameliche fauci.

 

Razieh Gholami, rifugiato afghano, "Hoping to Survive".

De Mattia Mariano

mercoledì 29 luglio 2020

FIGURE NASCOSTE: CHEIKH ANTA DIOP

FIGURE NASCOSTE:

CHEIKH ANTA DIOP 







Cheikh Anta Diop, panafricanista, chimico, filosofo, antropologo, fisico ed egittologo, nacque a Tiahitou, Sénégal, il 29 Dicembre 1923 in una famiglia di etnia Wolof musulmana mouride, ovvero facente parte dell’unica confraternita islamica indipendente in Africa. 
Il suo genio accademico ed il suo spirito fieramente africano erano evidenti sin dalla sua gioventù, quando tradusse opere di Einstein nella lingua indigena senegalese, il Wolof, nella prospettiva in cui le grandi scoperte dell’umanità appartengono a tutte e tutti e possono essere intese e migliorate anche da coloro che vivono nelle periferie del sistema di produzione economica ed intellettuale standard, ovvero fuori dall’Occidente. 


 

Arrivato a Parigi a 23 anni per studiare alla Sorbona, intraprese una doppia laurea in filosofia ed in chimica, proseguì, poi, i suoi studi specializzandosi nell’Antico Egitto e presentò una tesi di dottorato che dimostrava che gli antichi egizi, sbiancati per generazioni così come altre grandi civiltà e personaggi, erano, in realtà, neri subsahariani di etnia Bantu, ovvero appartenenti al principale macro-gruppo etnico dell’Africa Nera.
La sua tesi venne rigettata e non è sorprendente, infatti all’epoca il Senegal, così come tutta l’Africa, era ancora sotto il giogo coloniale, tra l’altro, proprio francese. 


 
Il pensiero coloniale francese era stato riassunto da Arthur Joseph de Gobineau, filosofo che contribuì, tra l’altro, alla formazione della concezione nazista. 
Nel suo libro dal titolo piuttosto tautologico, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane”, de Gobineau teorizza un pensiero ancora oggi molto comune, decreta, infatti, “l’inscindibilità del senso artistico rispetto al sangue nero, ma riduce l’arte a manifestazione inferiore della natura umana, in particolare il senso del ritmo è relazionato alle attitudini emozionali del nero.” (citazione dal libro “Le origini Africane della civiltà” di Cheikh Anta Diop), “quindi, il nero possiede l’attitudine sessuale senza la quale nessun tipo di arte è possibile, ma, dall’altra parte, la totale assenza di attitudini intellettive non gli permette di coltivare l’arte, né di comprendere il lavoro più nobile che questa applicazione dell’intelligenza umana può produrre, per questo, il nero ha sempre bisogno di essere affiancato da una razza superiore per sviluppare le sue facoltà ” (citazione da “Saggio sull’Ineguaglianza delle Razze Umane”, A.J. de Gobineau).
Questa concezione estremamente razzializzante, che vuole categorizzare qualsiasi cosa che la civiltà nera abbia inconfutabilmente prodotto come “inferiore”, forzando grandi opere e magnifici istinti in questa categoria, è stata ripresa da eccelsi intellettuali africani, uno su tutti, Léopold Sédar Senghor, primo Presidente della Repubblica del Senegal, intellettuale di formazione parigina che formulò la teoria della “Négritude” ovvero “Neritudine”, in cui ricollega il ritmo, la passione e lo spirito vitale all’uomo nero e il raziocinio a quello bianco, sintetizzando ciò in un passo di poesia “L’emozione è nera come la ragione è ellenica”.




Tra Diop e Senghor c’erano differenze di vedute non indifferenti, che sfociarono in scontri aperti a causa delle conclusioni e della Weltanshaung (la visione del mondo) che derivavano dalle distinte concezioni teoretiche a cui si rifacevano. Senghor vide sempre come fondamentale il legame con la Francia anche e soprattutto in epoca post coloniale e di transizione all’Indipendenza, mentre Diop sognava un’unione Africana e denunciava lo stato di autoghetizzazione che derivava dall’alienazione dell’uomo nero dalla sua stessa storia e, quindi, dal suo stesso potenziale e identità, causando gravissimi problemi di autostima e bloccando, di fatto, lo sviluppo, “soprattutto per il nero che abbia avuto l’opportunità di formarsi all’estero e vedere cosa il mondo pensa di lui e del suo popolo”. 
Lo scontro con il Presidente lo portò all’arresto e alla formazione, da parte sua, di tre partiti politici distinti.
Nonostante ciò, la tesi finalmente pubblicata nel 1955, il dottorato finalmente ottenuto nel 1960, i libri e gli studi effettuati in carriera, lo identificarono come uno dei più grandi intellettuali del suo tempo, riconosciuto anche a livello accademico internazionale nonostante le conseguenze politiche della sua opera; in particolare di quella al carbonio 14, con cui analizzò resti umani risalenti all’Antico Egitto, dimostrando la nerezza di questi, provata anche da un approfondito studio della lingua e dell’arte egizia, in particolare della statuaria e dell’architettura; esemplificativa è la Sfinge, a cui, così come agli altri grandi monumenti egizi, manca, guarda caso, solo il naso, che permetterebbe di identificare i soggetti raffigurati come neri africani.



 
Anta Diop era pienamente cosciente della volontà e dell’ingegneria politica che avevano portato alla cancellazione della storia africana, così come quella di tutti i popoli sottomessi dall’Europa in quel periodo, perché su ciò si basava la giustificazione della missione coloniale stessa: l’esportazione della Civiltà in territori abitati da barbari, persone senza arte né cultura, che dovevano essere elevate al livello degli altri uomini, a partire da questo momento “il capitalismo ebbe la libertà di praticare il più feroce sfruttamento con la scusa di pretesti morali”.



Francesca Sanneh.

venerdì 17 luglio 2020

INTERVISTA A KATIA CAVAZZINI




 Autoritratto, "Experimental ph.2", Digital Face Paint




Katia Cavazzini, (@arte_afroitaliana su Instagram) artista ItaloZambiana classe ‘95, ha rilasciato un’intervista esclusiva a UNO. in cui esplora la sua identità di persona, donna e artista.

Nelle sue opere colpiscono l’uso del colore, in particolare neon, e la mistura di figure, riferimenti ed iconografie italiane quanto africane, che raccontano una storia da un punto di vista unico e personale.

Nata in Italia da madre dello Zambia e padre italiano, Katia si è poi trasferita nel Paese Africano da piccola, ritornando in Italia solo per l'università, il che rende la sua esperienza e la sua prospettiva estremamente peculiari, ma è una storia immaginabile a partire dalle sue opere, che mischiano il tratto della pittura italiana dei primi del Novecento con forme, paesaggi ed iconografie chiaramente Africane.

Come spiega nell'intervista ma è già evidente dalla sua produzione, il suo processo ed i suoi risultati creativi sono vari, in primis perché si dedica a pittura, scultura, mixed media ed arte digitale ed in secundis perché nella plefora della sua arte, i temi, toni e sentimenti variano dall'introspezione esistenziale, all'intimità, alla tragedia della tratta, alla celebrazione della bellezza.

Katia esprime una visione del mondo che diventerà -fortunatamente- sempre più comune.





Ecco l’intervista completa con Francesca Sanneh.



D:La tua arte sintetizza le tue due Patrie, l’Italia e lo Zambia, in maniere diverse. A prima vista, l’uso del colore e la tecnica di disegno, ricordano l’arte italiana dello scorso secolo, ma i personaggi, e spesso i temi, sono africani. Questa duplicità della tua arte è voluta o è semplicemente il modo in cui vedi il mondo?
R:Dipende, a volte quando ho un messaggio forte da trasmettere, ho una sorta di ossessione per provare a diffondere il messaggio correttamente e anche studiare quel messaggio, informarmi intensamente e diffondere informazioni corrette.  Allo stesso tempo vado nella mia modalità relax e faccio dipinti divertenti cercando di mescolare culture, religione e mitologia africane ed europee.

                                                                  "Redface 2" 

D:Sei mai stata in Zambia? Qual è il tuo legame con il Paese?
R: Sì, sono stata in Zambia, sono nata qui in Italia, quando avevo 6 anni ci siamo trasferiti in Zambia.  Sono cresciuta in Zambia, poi dopo aver finito l'università sono tornata in Italia per iniziare a studiare arte.  La mia connessione con la Zambia è la mia mamma.

D:Quali sono le tue ispirazioni artistiche e perché? Parlo tanto di altri artisti quanto di cose, temi, paesaggi, fenomeni che smuovono la tua creatività? Com’è il tuo processo creativo? 
R: Aspiro a usare la mia arte per vedere la bellezza della cultura Zambiana ed Italiana e di come possano fondersi insieme, per mostrare il bene e il male di entrambe le culture e le somiglianze che possono avere. Sono una pensatrice astratta e cerco di trovare diversi  soluzioni su come convincere le persone a comprendere meglio determinate situazioni.  Mettere gli africani in un contesto artistico europeo può rendere più semplice la comprensione dell'esempio della situazione usando figure religiose sarebbe più facile esprimere lo stesso dolore che un africano sentirebbe a causa dell'ingiustizia e della mancanza di verità.


D:Nelle tue opere c’è un uso piuttosto imponente del neon, perché questa scelta? 
R: Lo scorso anno ho partecipato ad una mostra accademica intitolata SculturalNatura, il cui tema era l’arte costruita nella natura. Ho scelto la luce UV dopo aver fatto delle ricerche sulla limitazione dei recettori, noi umani ne abbiamo tre, altri animali ne hanno sei o meno, quindi da quel momento ho cercato di fare arte che esplorasse e spiegasse il fatto che non ci è dato di vedere tutto ciò che si trova davanti ai nostri occhi, non vediamo necessariamente tutta la bellezza del mondo, non vediamo tutto ciò che potenzialmente esiste, ed è per questo che utilizzo l’UV, per affermare che non sempre vediamo le cose come ce le aspetteremmo.

                                            "Mystical river", oil paint, acrylic uv paint


D:Come ti identifichi: italiana, afroitaliana, italozambiana, zambiana o nulla di tutto ciò? Cosa ti ha portato a definire la tua identità? 
R: Mi identifico in ItaloZambiana, è più facile rispondere alla domanda costante "quali sono le tue origini".  Scherzi a parte, anche se sono italiana, sono orgogliosa di essere anche zambiana e voglio rappresentare entrambe le metà.

D:Come vedi lo stato dell’arte italiana oggi? Cosa credi che manchi? Quali i pregi? Quali pensi siano le sfide per migliorare? Cosa credi ci differenzi dagli altri? Cosa ne pensi dell’insegnamento accademico dell’arte?
R: Penso che l'arte italiana sia diventata più influenzata dai social media, molto sessuale e molto kitsch.  Penso che manchi l'emozione, provo una sensazione di emozioni sintetiche nell'arte di oggi.
 Ci sono così tante cose che possono essere fatte per migliorare l'accademia, manca di organizzazione, la volontà di fare davvero un cambiamento per migliorare gli standard e la mancanza di qualifiche dei professori.

D:Quali sono le peculiarità dell’essere una donna nera artista in Italia?
R: Essere un artista nera in Italia può essere una sfida, ci sono molti preconcetti sul mio lavoro a causa del mio aspetto, ma allo stesso tempo posso capirne i motivi e questo mi motiva a fare del mio meglio per far arrivare quello che voglio trasmettere.

                                                             "Afro Lady"

D:Il tuo nome su Instagram è “arte_afroitaliana”, come mai la scelta di questo nome? È questa la tua autodefinizione? Ci sono stati altri artisti che hanno unito i due mondi nella nostra storia?
R: Il mio nome Instagram è stato pensato come una piattaforma visiva per mostrare la mia arte. Afro rappresenta l'Afro che è diventato un potente simbolo politico che riflette l'orgoglio nero.  Italiana perché sono italiana e il fatto di essere di colore non mi rende meno italiana.Una nazionalità non deve avere un colore per rappresentarla.  Gli italiani bianchi dovrebbero abituarsi alle persone di colore nate in Italia e identificarsi italiane senza la sensazione di non essere state dichiarate!  senza qualcuno che dice di tornare indietro.  Altrimenti i neri saranno sempre visti come stranieri invece che uguali.

venerdì 3 luglio 2020

IMMIGRAZIONE, IL REATO CHE COMMETTEREMMO TUTT*

IMMIGRAZIONE: IL “REATO” CHE TUTTI COMMETTEREMMO.







La questione dell’immigrazione è un argomento che mi sta molto a cuore, perché sono consapevole che, se non avessi avuto l’immensa fortuna di essere adottato da una meravigliosa famiglia italiana, su quei barconi avrei potuto esserci io.

Questo tema è molto ampio e racchiude in sé molteplici considerazioni, ma soprattutto diventa, purtroppo, terreno particolarmente fertile per il diffondersi dei nazionalismi e del razzismo, in particolare modo nei confronti di persone provenienti dall’Africa. 



 
Innanzitutto è bene fare alcune precisazioni su basi legali di questo fenomeno, anche per chiarire alcuni concetti, che vengono eccessivamente semplificati da  slogan di coloro i quali sembrano aver fatto della lotta all’immigrazione la loro vocazione di vita.
Spesso sento dire “chi scappa dalla guerra è il benvenuto, gli altri no”.
A dire il vero la realtà è un po’ diversa e più complicata.
Non è sufficiente fare riferimento alla presenza di un conflitto per stabilire chi abbia diritto di essere accolto o meno, in quanto la risposta potrà essere solo il risultato di un’attenta analisi effettuata  dalle Commissioni territoriali sulla base di parametri oggettivi e soggettivi, che tenga in considerazione la storia individuale di ciascun richiedente, le ragioni delle richieste e il paese di provenienza.


 
Come prima cosa è necessario distinguere diverse categorie di soggetti.
Primo fra tutti il rifugiato, figura giuridica entrata nell’ordinamento italiano con l'adesione alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 (ratificata con la legge 722/1954) e regolata essenzialmente da fonti di rango UE. 
Il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Può trattarsi anche di un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per le stesse ragioni non può o non vuole farvi ritorno.


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Il diritto dell’Ue considera i richiedenti d’asilo come i richiedenti “la protezione internazionale“, (istituto introdotto con la direttiva 2004/83/CE) la quale comprende due distinte categorie giuridiche: i rifugiati, disciplinati dalla Convenzione di Ginevra, e le persone ammissibili alla protezione sussidiaria, cioè quei cittadini stranieri privi dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma che tuttavia, se ritornassero nel Paese di origine, correrebbero il rischio effettivo di subire un grave danno e che non possono o non vogliono, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione del Paese di origine. Per danno grave si intendono condanna a morte, torture o minaccia grave e individuale alla vita derivante dalla violenza causata da un conflitto armato (quindi solo qui rientrano i soggetti che scappano dalla guerra).
In Italia poi, prima dell’intervento dei famigerati decreti sicurezza (o meglio insicurezza), era prevista anche la protezione umanitaria. Questa veniva concessa a coloro che non avevano diritto al riconoscimento dello status di rifugiato né della protezione sussidiaria, ma non potevano essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi situazioni personali quali: motivi di salute o di età, carestie e disastri ambientali o naturali, l’assenza di legami familiari nel Paese d’origine, l’essere vittima di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza o di insufficiente rispetto dei diritti umani.
Tale istituto della protezione umanitaria era stato introdotto per dare piena attuazione all’articolo 10 della nostra Costituzione, che parla di cittadini stranieri ai quali «sia impedito» nel loro paese «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».




Fatte queste precisazioni terminologiche, non condivido come viene a volte trattato il tema dell’immigrazione. 
Spesso si tendono a riportare sulle pagine social o nei notiziari, con estrema puntualità e frequenza (a volte anche tramite fake news), i reati commessi da persone africane, o straniere, sottolineandone il paese di provenienza, quasi a voler costruire, nell’immaginario comune, l’idea di una naturale propensione di questi soggetti a voler violare la legge. 
Anche l’utilizzo della parola “invasione” per riferirsi al fenomeno dell’immigrazione ha delle conseguenze non indifferenti. Tale termine (non usato a caso) evoca, a pensarci bene, un pericolo, una minaccia alla vita, alla cultura e alle tradizioni della madre patria e la necessità a tutti i costi di doversi difendere dallo straniero per vincere la battaglia e riprendersi in mano la nazione. 
Agendo in questo modo, si alimentano i pregiudizi e la diffidenza dei cittadini nei confronti di soggetti di diversa provenienza o nei confronti di quei connazionali, che come unica colpa hanno quella di non rispettare i tipici tratti etnici, perché magari troppo scuri. 
Ritengo, in generale, che al di là della regolamentazione, si debba comunque mantenere un atteggiamento più umano di fronte alla questione dell’immigrazione. Stiamo parlando pur sempre di persone, non semplici numeri. Uomini, donne, bambini che hanno affrontato viaggi disperati, consapevoli di poter andare incontro a morte, violenza e ai trattamenti più disumani. Persone, la cui unica colpa è stata quella di nascere nel posto sbagliato. 
In Italia si è addirittura introdotto il reato di clandestinità (con l’aggiunta dell’art.10 bis al T.U. sull’immigrazione), che alimenta e fornisce un fondamento alla percezione di insicurezza instillata negli italiani.
Non è forse un reato che tutti potremmo essere portati a commettere per cercare di sopravvivere, trovare la pace e un futuro migliore per noi e i nostri cari? Anzi, non tutti avremmo il coraggio di spingerci ad affrontare un tale viaggio.



L’Europa, che ha la possibilità di cambiare le cose, potrebbe affrontare il tema dell’immigrazione con una visione più ampia, con uno sguardo rivolto non solo al presente, ma anche al passato interrogandosi sulle cause dei flussi migratori.
È fondamentale cioè che essa impari a confrontarsi e a fare i conti con la sua storia, con sincerità e assumendosi le sue responsabilità. Una storia che non può ignorare o minimizzare i secoli di schiavitù, colonialismo (oggi nella forma di neocolonialismo) e conflitti, soprattutto a danno dell’Africa.
Non si può negare che eventi del genere abbiano avuto un ruolo chiave e continuino ad essere uno dei motivi principali di questi movimenti migratori attraverso la rotta del Mediterraneo.
Allora sarà chiaro che attuare vere iniziative di aiuto e sostegno ai Paesi da cui provengono i migranti, in particolare all’Africa sarà più efficace che provare a bloccare le partenze o respingere i migranti (verso luoghi che sono tutt’altro che sicuri).
Una più solidale e diffusa politica di accoglienza e integrazione, ma soprattutto iniziative concrete a supporto di questo continente , che è stato e continua a essere oggetto di sfruttamento, credo siano un atto dovuto di cui alla fine beneficeremo tutti. 


Nicola Mengistu Perini.

giovedì 2 luglio 2020

51 ANNI DI STONEWALL




Donne nere trans: l’origine del Pride
Tutti al giorno d’oggi sanno cos'è il Pride, hanno in mente le parate piene
di musica, colori, gente che balla e si diverte. Gli eventi sono portavoce
della volontà delle persone di essere ciò che sono e reclamare la libertà di
poterlo fare, le parole parlano di parità di diritti.
“La prima volta fu rivolta” questo è il grido più sentito al Milano Pride
2019, un canto ripetuto in coro da un mare di persone in festa, ricoperte
da glitter ed arcobaleni, uniti nella volontà di ricordare le origini del movimento nato 50 anni prima.

Nel 1969 era illegale vestirsi con capi di abbigliamento che non appartenessero al genere assegnato alla nascita, per le persone queer era illegale bere e ballare assieme e per le donne era obbligatorio indossare almeno treaccessori femminili. 
Per questo nelle prime ore del 28 giugno dei poliziotti sono entrati nel gay bar Stonewall Inn di New York e come ogni mese hanno cominciato ad arrestare una manciata di persone.
Tra queste c’era Stormè DeLaverie, una lesbica butch figlia di una donna
nera ed un uomo bianco. Mentre veniva trascinata via dalla polizia DeLaverie gridava a tutti coloro che le stavano attorno: “perché non state facendo qualcosa?” finché la folla intervenne e scoppiò la rivolta.


“There is no what it was and why it happened, it was just the right time
and the right place” : non c’è un cos'era e perché è successo, era solo il tem-
po giusto ed il posto giusto. Queste sono le parole di Miss Major, una delle
donne trans nere al centro della rivolta, in un’intervista. Quei sei giorni di
rivolta hanno visto azioni di violenza, lotta contro la polizia, un palazzo in
fiamme ma anche il coraggio delle persone queer presenti.
Ricordiamo le leader della rivolta:
per le strade Marsha P. Johnson, una donna trans nera, era in prima linea
nelle lotte e nella prima vera e propria parata, diventando un’icona per
tutta la comunità a venire.
Sylvia Rivera, Donna trans latina, che assieme a Marsha P. Johnson ha
fondato la S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries).
Le motivazioni di allora erano diverse da quelle odierne, a quei tempi si
lottava per il diritto di poter esistere nella propria autenticità senza temere
che i poliziotti venissero ad ucciderti, durante le parate si lanciavano mattoni anziché i palloncini colorati di oggi.


Stonewall è stata la rivolta che ha dato una svolta decisiva alla lotta per le
persone LGBTQ+, ma non è stata la prima. Ce ne son state altre, come
quella a Los Angeles nel maggio del 1959 e a Philadelphia nel 1965 in
Aprile. Ogni rivolta è scaturita da un abuso di potere da parte delle forze
dell’ordine, come la rivolta nella caffetteria Compton’s nell’agosto del 1966,
a San Francisco, dove una drag queen ha rovesciato il suo caffè caldo addosso poliziotto che stava cercando di arrestarla ingiustamente.


Stonewall è celebrata come l’origine del movimento LGBTQ+ grazie ad organizzazioni come la S.T.A.R. e le manifestazioni che sono seguite, guidate
da Sylvia Rivera e Marsha P. Johnson.
I pride festosi che festeggiamo oggi li dobbiamo a loro, le persone che
hanno rischiato tutto, perso casa e lavoro per la loro identità, reclamato
insulti come “queer” facendoli diventare parole di cui essere fieri.
Eppure la comunità stessa non è stata gentile con loro, le persone trans
sono state e sono tuttora discriminate anche all’interno di ambienti queer,
Sylvia Rivera stessa ha lasciato la S.T.A.R. per la transfobia che si è inserita
nel tempo.

Le persone Trans nere, soprattutto le donne, sono particolarmente a ri-
schio al giorno d’oggi, ne vengono uccise centinaia ogni anno, ed anche da
morte non sono minimamente rispettate. Ad esempio Tony McDade, un
ragazzo nero trans ucciso due giorni dopo George Floyd, di cui si fa riferimento in termini femminili nel giornale locale.

L’anno scorso, durante la parata Pride davanti a Stonewall, una donna
trans nera ha cominciato a leggere i nomi delle persone trans uccise per
intolleranza, la folla attorno a lei si è lamentata dicendo che stava “rovinando la festa”. Ma non c’è festa senza lotta ed una cosa è sicura, le persone
rans non smetteranno mai di lottare finché tutti saranno al sicuro.


Questa lotta è cominciata in America, ma si è sparsa in tutto il mondo,
Italia inclusa. La transfobia in Italia è tanto pericolosa quanto da altre parti ed è presente in ogni ambito, anche in ambienti che sostengono di tutelare le persone LGBTQ+. E’ importante mantenere vivo il dialogo sul rispetto dei trans: se da una delle persone fanno qualche battuta su
quanto trovino ridicolo l’asterisco alla fine delle parole, dall'altra c’è qualcuno
che rischia la vita, che sia per mano di altre persone o per la mancanza dei
trattamenti necessari, com’è accaduto l’anno scorso per la mancanza del
testosterone per la hormone replacement therapy per i ragazzi trans.

Articolo di Marty Schiavi

EROI ED EROINE DI LIBERAZIONE LGTBQIA+

Per celebrare il pride, ecco alcune figure di riferimento del mondo LGBTQIA+ che hanno fatto la storia e che possono ispirarci in una prospettiva intersezionale.


Nessun* è libero finché non lo siamo tutt* !


VICTORIA CRUZ

Nata a Guànica , Porto Rico o, come dice lei “Boriquén , prima che arrivassero gli europei”, una tra undici figli della madre. 

Si trasferì con la famiglia a Brooklyn dopo la Seconda Guerra Mondiale in cerca di una vita migliore. 

Arrivata nella Grande Mela, cominciò a fare ricerche sui trattamenti ormonali per la riassegnazione di genere, il suo sogno sin da piccola. Lavorava come parrucchiera, stripper e sex workers data la difficoltà usuale di una donna trans nel mondo del lavoro “comune”. Ebbe una breve carriera come modella, interrotta bruscamente e violentemente quando scoprirono che era una donna trans.

Frequentava assiduamente il bar di Stonewall e partecipò alle rivolte. A cavallo tra gli anni ‘70 ed ‘80, lasciò il sex work grazie al suo compagno dell’epoca e si iscrisse all’Università prendendo una laurea a Teatro e Belle Arti, scelta motivata soprattutto dalla diffusione dell’AIDS che rendeva ancora più pericoloso il sex work; ma fu costretta ritornarci dopo varie vicende, che però poi la portarono a lavorare con il Progetto Anti -Violenza per diciotto anni, aiutando persone vittime di abuso e in situazioni di strada.



ALOK V MENNON

È artista di mixed media, performer, scrive ed interpreta poesie e prosa ed utilizza il fashion design. È gender non conforming e tratta di genere, razza, trauma e la condizione umana, analizzando, anche storicamente, la presenza  e l’esistenza di persone che non si riconoscono nella binarietà del genere.

                                                 

KARL HEINRICH ULRICHS

Giurista tedesco dell’Ottocento, fu allontanato dall’esercito per via della sua omosessualità. Fu tra i pionieri della battaglia per il riconoscimento e la dignità dell’omoaffettività  e scrisse dodici libri al riguardo, in cui rivoluzionò il linguaggio, intingendolo  di dignità e bellezza. Considerato tra i primi difensori dell’identità queer basata su studi scientifici, riconoscendo diverse identità di genere e sessualità.



SYLVIA RIVERA

Nata nel Bronx, orfana a tre anni, fu affidata alla nonna, che la redarguiva spesso per la sua pelle troppo scura e i suoi modi troppo femminili. Già in quarta elementare aveva coscienza di se stessa e coraggio a sufficienza da truccarsi, per poi lasciare casa a dieci anni, ritrovandosi per strada lavorando nell’industria del sesso per sopravvivere, accolta, però dalla sua nuova famiglia che le insegnò come barcamenarsi in una situazione terrificante e profondamente ingiusta.  

Fu tra i primi membri dei movimenti di liberazione gay, da cui, però, si allontanò per via della transfobia e il razzismo latenti in questi gruppi, formati prevalentemente da uomini cisgender e bianchi, la cui aspirazione era escludere se stessi dalle categorie di “degrado sociale”. Sylvia emerse con la sua passione innata, risvegliando rumorosamente le coscienze del movimento LGBTQIA+ affinché lottasse per i propri diritti con coraggio ed in maniera intersezionale, si batté eroicamente per le giovani persone Queer senza fissa dimora e per le persone trans non bianche, in particolare. Fondò S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries) con Marsha P Johnson.

Fu una delle figure più importanti di Stonewall, a cui partecipò a soli diciassette, dicendo “non mi perderò nemmeno un minuto di questo, questa è la rivoluzione!”.



MARSHA P JOHNSON

Terminato il liceo, arrivò a New York con quindici dollari in borsa e rimase coinvolta, come la stragrande maggioranza della gioventù queer, nel lavoro sessuale e la vita di strada. Sei anni dopo, a soli 23 anni, partecipò a Stonewall come una delle figure chiave e fondò il Gay Liberation Movement e, con la sua grande amica Sylvia Rivera, S.T.A.R., per dare rifugio e supporto a persone giovani della comunità LGBTQIA +. Conosciuta per la sua bontà d’animo e generosità, dedicò tutta la sua vita all’umanesimo, lottando con gioia e colore contro la grettezza del tentativo di annichilimento che la società faceva e fa nei confronti delle persone non cis-genero e non eterosessuali. 

Fu ritrovata morta nel fiume Hudson nel 1992, in quello che venne classificato come suicidio, ma le circostanze non furono mai investigate e dovere e molte persone sostengono fermamente che si sia trattato, invece, di omicidio.





PORPORA MARASCIANO

Attivista, autrice, sociologa, presidente del Movimento d’Identità Trans, che ha fondato negli anni ‘70, vice presidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, responsabile del consultorio ASL/MIT, ideatrice della strategia di Riduzione del danno nel mondo della prostituzione in Italia, dirigente di Divergenti Festival del Cinema Trans, insomma, un esempio di lotta fondamentale per il nostro Paese.

Partecipò a Fuori! progetto sorto nel 72 a Sanremo come protesta contro un convegno di sessuologi che trattava l’omosessualità come malattia. Vicino al partito Radicale e al movimento femminista, Fuori! crebbe ed è considerato il primo movimento organizzato, momento cruciale e decisivo per la formazione di una coscienza collettiva circa questi temi.



JAMES BALDWIN

Uno dei più grandi intellettuali di sempre, nonché uno degli scrittori più abili, intelligenti socialmente quanto filosoficamente quanto emotivamente, Baldwin nacque a Harlem, ma lasciò gli Stati Uniti a ventiquattro anni per via del razzismo e l’omofobia e si trasferì in quella che veniva vista come la città della salvificazione: Parigi.

Immensa e stupenda voce di narrazione, interpretazione e guida della comunità nera, lavorò instancabilmente anche per l’emancipazione dell’altra parte della sua identità socialmente oppressa: l’omosessualità.

Uno dei suoi lavori più importanti sull’omoaffettività  è “La stanza di Giovanni”, in cui tratta del tedio del protagonista tra il suo amore per una donna e quello che ha per un uomo, o, nelle parole di Baldwin “di ciò che ti succede se hai paura di amare”.

“La scoperta della propria sessualità non deve essere un trauma, lo è perché è traumatizzato, reso tale dalla società”.


articolo a cura di Francesca Sanneh.

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